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Maria Callas, divinísima
Opinión sobre Pavarotti de Paolo Isotta en el Corriere della Sera (7-09-2007)
Por Publicado el: 09/09/2007Categorías: En la prensa

Quei fischi discussi

LIBERO, venerdì 7 settembre 2007

Pagina 1
Quei fischi discussi
Ma i suoi vibrati da Bohème ci mancavano da un pezzo
di OSCAR GIANNINO
Chi sa fare la musica la fa, chi la sa fare meno la insegna, chi la sa fare ancora meno la organizza, chi la sa fare così così la critica. Parola di Pavarotti, quando era già Big Luciano dei megaconcerti con Cielito Lindo alternato a Lucio Dalla. Io non sono mai stato d’accordo. Pavarotti divulgatore è stato meglio del tenore. (…)
segue a pagina 15

L’artista
Un solo difetto, non ha saputo lasciare
Negli ultimi 15 anni era diventato un fenomeno popolare, ma la voce aveva ceduto

Segue dalla prima, OSCAR GIANNINO
(…) D’accordo, ora è ap¬pena scomparso, l’intero mondo giustamente in lui pensa oggi a tutte le volte in cui, grazie alla sua voce e al miracolo della musica lirica avvicinata a tanti che la ignorava¬no o deridevano, milioni di soli¬tudini si sono d’incanto popolate di luci. Ma in realtà della musica e dei suoi protagonisti il mondo si divide in due. C’è chi pensa che sia come fare l’amore, a chiac¬chiere sempre gli stessi gestì ma in realtà una passione ogni volta diversa per quel che ti scatena dentro. E sono la maggioranza, vieppiù di fronte a un fenome¬no popolare di massa com’era dive¬nuto negli ultimi 15 anni Pavarotti. Eppoi ci sono i caca¬dubbi che la mu¬sica l’hanno studia¬ta e sanno distinguere davvero un sibemolle o una chiave di basso. E per loro è inevitabile, la musica è come quan¬do si ascoltano le bar¬zellette, che più le si ascolta più si diventa di orecchio e animo esigente. Ora non è certo per fare l’antipatizzante di ma¬niera, ma fatto sta che se voi mi dite Tito Gobbi o Mario Del Mo¬naco, di entrambi vi dico che la maestosità delle loro interpreta¬zioni – con tutto che le incisioni sono quelle che sono, natural¬mente – li mette tante posizioni prima di Big Luciano, nella gra¬duatoria internazionale delle voci indimenticabili. Certo, conta la fisiologia, oltre che studio e carattere. Il timbro di un tenore dram¬matico dalle sonorità bronzee – chi ha mai ascoltato Del Monaco in uno dei suoi meravigliosi Otel¬lo della lunghissima maturità sa di che cosa si stia qui parlando – con la salute che assiste e senza problemi di diaframma e di espirazione può magari scavallare senza troppe opacità i settant’anni, esattamente come capita ai bassi stratosferici della grande tradizione italiana, Renato Bruson in cima a tutti per capirci coi suoi epici Filippo II nel Don Car¬los. Ma quando l’emissione è quella di un tenore leggero di co¬loritura brillante, come appunto nel caso di Pavarotti e dei ruoli che lo hanno consacrato per più di vent’anni come Rodolfo nella Bohème, e nei ruoli da protagonista delle varie Figlie del reggi¬mento, delle Lucia di Lammermoor, delle Sonnambule e del duca di Mantova in Rigoletto, ec¬co che allora il rischio del tempo che scorre irreparabile diventa maggiore e più sottile, insidioso. Al tenore brillante non si chiede tanto la potenza di emissione e tenuta dei do di petto imprevisti ma eseguitìssimi e molto ap¬plauditi da tutti i Manrico di ogni Traviata che si rispetti. Quel che fa di una voce da tenore “colorito” un monumento indimenticabile è l’invitta capacità di tenere caldo e pastoso il fraseggio, senza mai scadere in un finto falsetto con¬trobilanciato dall’altezza di tono. Ed è esattamente su questo, che Pavarotti da molti anni a questa parte aveva cominciato a cadere.

L’incidente scaligero
Il famosissimo infortunio nel Don Carlos alla Scala del 1992, con Riccardo Muti sul podio, fu nient’altro che un tuono scoppia¬to dopo molti brontolìi di avviso, negli anni immediatamente pre¬cedenti. Non sarà molto elegante ricordarlo ma quando Big Lucia¬no aveva provato a cimentarsi con l’Otello che non faceva per le sue corde, gli esiti del pubblico erano stati altrettanto “sonori”, e non esattamente di gradimento. Checché ne dicano migliaia e migliaia di fan di Pavarotti – che na¬turalmente non ammettono cri¬tiche – quello scaligero non fu af¬fatto un incidente di percorso, di quelli che sono capitati a tutti i grandi e grandissimi nomi della lirica nella loro carriera. Come a placido Domingo nel famoso Trovatore diretto da von Karajan nel 1978, o a Monserrat Caballé in una dimenticabilissima edizione di Barbiere di Siviglia andata in scena a Nizza nel 1982. No, l’infortunio Pavarottesco di ormai 15 anni fa era il segno indefettibile che i teneri duetti a mezza emissione con Violetta della Traviata diventavano impervi. E da allora ai critici – come il sotto¬scritto, lo avrete capito – iniziò a divenire sempre più chiaro per¬ché Big Luciano non avesse esita¬zioni, nell’indicare in Enrico Ca¬ruso e Mario Lanza i due più grandi nomi, tra i suoi predeces¬sori nel pantheon del 900 italiano del melodramma.
Caruso e Lanza
C’è un filo rosso a unire quei due nomi a Pavarotti. Sono stati insieme a lui, prima di lui, i due grandi pionieri italiani delle incisioni ri¬volte alla massa, quando la tecni¬ca era ai suoi esordi. Due imbatti¬bili cacciatori di popolarità in re¬cital applauditissimi, oltre ma an¬che invece che in opere sobriamente rappresentate onorando¬ne tutte le date in cartellone. All’e¬poca Caruso e Lanza sconfinaro¬no nel repertorio di genere, che allora apriva ai tenori la canzone classica e contemporanea napoletana. Amatissima alla follia, non solo in Italia ma anche all’estero e non solo per via di milioni di no¬stri emigranti. Big Luciano ha fat¬to di più e di meglio, mettendosi al passo coi tempi e con la globa¬lizzazione delle grandi etichette e delle star pop internazionali, oltre che italiane.
Ma perdonatemi. Non è per purismo accademico o per elitismo d’accatto, che vi dico che le inci¬sioni memorabili di Pavarottì da¬tano ormai a 25 anni fa e oltre. Tutto quel che è venuto dopo – un’infinità di iniziative e concerti, recital e iniziative benefiche – appartiene a un altro capitolo, ri¬spetto a quello della vera storia della musica e dei suoi grandi in¬terpreti. L’Ingemisco della Messa da Requiem verdiana, uno dei ca¬valli di battaglia del Pavarottì mi¬gliore, capace di unire lo spessore della tensione emotiva del peccatore tremebondo alla dirittura della nota protratta, l’abbiamo dovuto riascoltare nella mitica edizione karajanesca con Fiorenza Cossotto, ma non voglio nean¬che dirvi quanti decenni sono passati.
Certo, gli appassionati di musica vorrebbero sempre essere assolutamente muti, quando invece spesso si rivelano assolutamente sordi. Perdonami dunque Big Lu¬ciano, se ho osato criticarti anche in questo giorno.

■ Quel che una voce da tenore “colorito” un monumento indimenticabile è l’invitta capacità di tenere caldo e pastoso il fraseggio senza mai scadere in un finto falsetto controbilanciato dall’altezza di tono. È esattamente su questo, che Pavarotti da molti anni aveva cominciato a cadere.

■ Il famosissimo infortunio nel Don Carlos alla Scala nel ‘92, con Muti sul podio, fu nient’altro che un tuono scoppiato dopo molti brontolii di avviso negli anni precedenti.

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